Iacopo Pinelli “Storie di alterazioni spaziali”

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Testo a cura di Domenico de Chirico
Il concetto di tempo e il suo intreccio con il mondo sensibile sono il fulcro dell’intera ricerca
di Iacopo Pinelli, commistione, al contempo, di un penetrante ardore e di un intimo sentire.
Tangibilmente, il sommo eppur composito quesito che ci si pone osservando i suoi lavori
è: può esistere un tempo pulsante, ritmico e cadenzato senza la plasmante materia?
Oppure è probabilmente la materia che per esistere nella sua mutabilità ha bisogno del
tempo e quest’ultimo, a sua volta, ha bisogno della materia stessa per definire,
corroborare e, infine, ratificare la sua esistenza? Inoltre, ha effettivamente il tempo
bisogno di farsi vedere?
Qualunque sia la risposta, di cui l’eco si espande per poi dissolversi nell’infinità
dell’universo – in riferimento alla tetralogia “restauro del tempo” che costituisce
segnatamente l’eccezionale scheletro di questo nuovo capitolo espositivo intitolato “Storie
di alterazioni spaziali” – “controcorrente” è la parola chiave che caratterizza il quadrivio
setacciato da Pinelli.
Lontano da un mondo particolarmente frenetico e impositivo, da un tempo colonizzato e
manipolato, frutto di estremismi virtuali, Iacopo Pinelli sceglie di andare à rebours,
spingendosi verso un sentire più autentico, pieno e puro, alla ricerca di un’esistenza
ritrovata – nella quale il cielo e la terra costituiscono positivamente tutto il nostro mondo –
adoperandosi per rintracciare la possibilità di un ritorno ad un rinnovato contatto con il
reale, così da poter godere di un’esperienza umana non più mediata e mai più violata.
Ed ecco che il percorso a ritroso si fa potenzialmente duplice, una traiettoria bifide che da
un lato frange la fluidità pseudo-informativa del presente verso un’antropologia più
consapevole e una filosofia dell’essenza, dall’altro procede a tergo verso un tempo idilliaco
eppur primordiale, quello in cui l’uomo e il tempo accennano unanimemente ai passi della
medesima danza.
L’intera serie di questo nuovo ciclo di opere consiste in una vera e propria riconquista del
tempo per mezzo di piccoli gesti quotidiani di conservazione e catalogazione.
Da dove veniamo è un lavoro che si concentra sul recupero dei semi trasportati o digeriti
dai volatili, recuperati sulla terrazza o sulla scalinata della sua abitazione. Una raccolta
protrattasi nel tempo, soprattutto durante la stagione primaverile, quando le temperature
si avvampano e i frutti maturano. Questi semi sono stati pressati nella terra tramite
fusione facendo sì che il metallo, una volta solidificatosi, assumesse la loro stessa
morfologia.
Chiedilo alla polvere, invece, è un’opera che affonda le proprie radici nel passato. L’artista
ha conservato per tantissimo tempo la polvere raccolta dai diversi fori praticati in studio. In
termini pratici, si tratta di una cornice in legno su cui è posizionato un foglio di carta con
impressa la texture del muro e del foro, realizzata tramite la tecnica sia del cosiddetto
frottage sia della goffratura manuale, su cui è adagiata la polvere ottenuta durante
l’esecuzione di ciascun foro. Qui, la materializzazione non è altro che il vuoto creato dalla
pratica del foro stesso.
Ancora, il lavoro Venerdi pomeriggio si propone come una celebrazione consapevole di
un rito, quello relativo al culto del pulito. Celebrando la consapevolezza delle piccole
azioni quotidiane, nel tentativo di affrontare un tempo così rapido e fugace, questo lavoro
glorifica il gioco di addizione e di sottrazione che avviene perpetuamente in ogni
abitazione. La polvere si accumula e via via viene sottratta in un ciclo eterno e ben
radicato. Qui, il materiale raccolto viene intrappolato tramite resina trasparente in forme
levigate e trattate come dei quarzi che richiamano la morfologia tipica di alcuni degli
strumenti destinati all’atto della pulizia. Per di più, tutte queste sculture possono ricordare
delle pietre, dei manufatti antichi o dei cimeli. Invero, siamo nell’epoca del controllo e delle
ossessioni maniacali.
Infine, Alterazioni spaziali si compone di diverse riproduzioni di porzioni di abitazioni in
cemento. Al centro di queste miniature architettoniche, sono delicatamente incastonati
fogli su cui si sono depositate tracce organiche generate dalla vita dei ragni che abitano e
trasformano leggerissimamente gli ambienti. Precedentemente, questi fogli sono stati
posizionati negli angoli delle case per un lungo periodo di tempo, permettendo agli insetti
di lasciare le loro sottili impronte vitali, alterando, quasi impercettibilmente, lo spazio
circostante. Parte integrante dell’opera sono delle lenti d’ingrandimento che consentono di
esplorare questi impalpabili microcosmi.
Atto dopo atto, ognuno dei quali risulta essere fondamentale per il carattere esteso della
ricerca e, dunque, particolarmente saliente all’interno del percorso creativo, l’impresa del
restauro del tempo trova la strada del suo compimento.
La cura e la dedizione nei riguardi dell’infinitamente piccolo, dell’inosservato, del
passaggio furtivo e del divenire infinitesimale di ogni cosa trovano un trionfo silenzioso
eppur potente, laddove ogni atomo di materia, organico e inorganico, escremento o
artificio, sussurra l’intensificazione di quel tempo che ha fatto in modo che quella particella
d’essere sopraggiungesse ai nostri occhi esattamente così com’è. Il seme, simbolo ricco
di significati che fanno riferimento alla fertilità, alla vita, alla crescita, alla ciclicità, alla
possibilità e al potenziale, nonché alla speranza e alla rinascita, viene qui sacralizzato
attraverso l’enfatizzazione del suo itinerario infaticabile all’interno di una moltitudine di
stomaci. In “Storie di alterazioni spaziali” tutto è magicamente frutto del divenire del
tempo, della casualità e della volontà di interazione con altri esseri o elementi e, in questo
caso, anche della mano dell’artista che, con le sue dita, ha garbatamente assecondato
questa traversata fino alla sua massima fioritura.

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